[26-06-2019] Lavorano, sono coniugate, hanno figli piccoli, un grado di istruzione di scuola superiore, un'età compresa tra i 31 e i 50 anni e sono per il 67% italiane: è l'identikit medio della donna che si presenta agli sportelli antiviolenza delle strutture venete. Denunciano per lo più violenza psicologica, spesso combinata con quella fisica ed economica, procurate nella maggior parte dei casi dal coniuge o convivente. Aggiungiamo che arrivano alle strutture ospedaliere di pronto soccorso per cure da aggressione fisica solo una volta su tre e denunciano alle forze dell'ordine anche meno: una su 4.
Il quadro emerge dal rapporto annuale rilasciato dalla Regione Veneto, con riferimento al 2018 e in relazione alle strutture accreditate - centri antiviolenza e case rifugio - del territorio regionale. L'indagine, pubblicata e diffusa in questi giorni, si basa su un universo di servizi svolto da 22 centri e 22 case rifugio, per un totale di 44 strutture.
Ecco dunque la nuova mappa dei centri come riportata nel rapporto
L'insieme vede in testa Padova e Vicenza con 10 strutture a testa, seguite da Venezia con 9, Treviso che ne ha 6, Verona 7, Belluno e Rovigo ciascuna con 2 strutture. Il 52,3% sono strutture private (21).
Con l'aumento delle strutture migliora il grado di copertura: il 2018 vede un centro antiviolenza ogni 114 mila donne residenti in Veneto (erano 120 mila l'anno precedente). E con l'aumento degli sportelli, da 20 a 25, sono cresciuti quasi dell'80% gli accessi, passando da 4.733 a 8.464, praticamente una segnalazione ogni 300 donne residenti.
Il rapporto evidenzia anche la relazione tra i nodi della rete di servizio, cioè da dove arriva l'utenza ai centri antiviolenza: sebbene siano il 73% le utenti che ci arrivano da sole o su invito di parenti, conoscenti o rete di amicizie, cresce il numero di coloro che vengono inviate, in ordine decrescente, dalle forze dell'ordine, dai servizi sociali comunali, dai Pronto soccorso, dalla rete 1522 (il numero di pubblica utilità istituito dal Dipartimento per le pari opportunità per tutto il territorio nazionale) e a scendere dai consultori familiari delle Ulss, dai servizi di supporto psicologico o psichiatrico, fino al medico di base. Una rete che lascia però ancora scoperta molta dell'utenza che arriva ai CAV: quasi la metà - il 48,5% - non risulta infatti seguita da nessuno dei servizi indicati, mentre il servizio al quale vengono maggiormente orientate le utenti dai centri è quello della consulenza legale, seguito dall'invio ai servizi sociali e alle forze dell'ordine.
Guardando alla distribuzione provinciale, l'area metropolitana veneziana conferma la posizione di vertice quanto a numero di centri antiviolenza (6). Prima posizione anche per il numero di donne prese in carico (791) seguita da Padova con 779. Una dinamica interessante è offerta dal rapporto tra le nuove prese in carico e i percorsi terminati o interrotti in corso d'anno. Qui Verona, Padova e Venezia offrono il dato più soddisfacente, rispettivamente al 32,5%, 34,4% e 40,2%, ovvero per ogni presa in carico abbandonano il servizio 1 donna su 3 o poco più. Vicenza invece, con il 92,3% segnala che per ogni donna che accede ai servizi antiviolenza, ce n'è un'altra che ne fa a meno.
Sul fronte delle donne ospitate presso le case rifugio, la rilevazione presenta un identikit medio parzialmente diverso da quello osservato in precedenza: fermo restando che si tratta di donne prevalentemente coniugate, sono in media meno scolarizzate (fino alla terza media la maggior parte), per il 62% sono disoccupate e più spesso residenti fuori dal territorio comunale dove sono ospitate. Completano il loro percorso verso l'uscita dalla violenza con l'aiuto soprattutto dei servizi sociali comunali e arrivano alla casa rifugio provenendo soprattutto dal Centro antiviolenza. Ancora più ridotto il ricorso alla denuncia presso le forze dell'ordine (29%), mentre sale al 51% l'accesso al pronto soccorso contro il 35,7% delle utenti dei CAV.
L'indagine offre per la prima volta un quadro economico della situazione, che evidenzia un forte scostamento tra costi e finanziamenti, complicato dalla doppia modalità di gestione finanziaria, in termini di cassa (quanto effettivamente erogato) e competenza (quanto assegnato e non del tutto erogato in corso di esercizio finanziario).
Già si è detto che le strutture sono prevalentemente private, soprattutto per quanto riguarda i CAV, prossimi al 60% (19 privati, 9 pubblici). Il dato si ribalta con le case rifugio, che si fermano al 45% con 10 strutture private su 22. Ma certamente sono soprattutto pubblici i proventi, che superano il 70% dei finanziamenti.
Diversi i costi per struttura, benché molto diversificati tra l'una e l'altra.
Per i CAV il costo di gestione medio è fissato in 78 mila euro; per le Case rifugio in 55 mila, di cui la maggior parte assorbita dal costo del personale impegnato. Diverso il comportamento per quanto riguarda le spese di pronta cassa: bassissimo per i CAV (2% dei finanziamenti), più consistente, anche se non quantificato nel rapporto, per le Case rifugio, che lo impiegano più facilmente come "argent de poche" per i percorsi di autonomia (lavorativa, abitativa e personale) delle donne ospitate.
Come prevedibile, la gestione finanziaria genera qualche preoccupazione, dato il discostamento tra risorse assegnate ed effettivamente erogate, che si ripercuote immancabilmente sul servizio e sulla programmazione delle attività da parte degli enti gestori: aspetti che la Regione promette di sondare con maggiore precisione nelle prossime rilevazioni.
Va detto comunque che questa indagine risulta più accurata e ricca di parametri osservati rispetto alle precedenti, per adeguarsi al monitoraggio avviato da Istat la scorsa estate, volto a costruire un osservatorio nazionale permanente sulle strutture e le relative attività, sulla base del protocollo d'intesa sottoscritto tra l'istituto statistico e il Dipartimento per le pari opportunità, in attuazione dell'impegno del governo italiano dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul 2011.
Dunque una fase di avvio che dovrà necessariamente mettere a punto gli strumenti di lettura più corretti. Con l'auspicio che ciò non si riduca ad una mera rappresentazione del miglior rapporto numerico tra costi e benefici. Non va dimenticato quale costo possa rappresentare l'attesa di un finanziamento su cui si conta per erogare un servizio di pubblica utilità come il contrasto alla violenza sulle donne e la loro tutela.
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Foto: Benjamin Voros per unsplash.com
ultimo aggiornamento: 2 luglio 2019